Parlare di pace non è mai troppo semplice o banale, perché in questo tempo pare non si possa proprio affrontare questo tema senza parlare di guerra, come se la pace non fosse altro che l’assenza della guerra.

Noi vogliamo farlo, proponendovi il tema vincitrice del 1° premio della V Edizione del Concorso Letterario “Il Rotary per la Pace – Piero Sanpaolo”, a cura del Rotary Club San Severo (FG).

Mr. K, così lo chiamavano i suoi studenti, era un normale professore di storia in un piccolo liceo degli Stati Uniti, allenatore della squadra di pallacanestro della scuola e sempre con una mela nel palmo della mano.

Io non conoscevo mr. K prima di trasferirmi in quella città e ricordo che diventammo subito amici. Diceva di voler tornare nel suo “posto nel mondo” e noi studenti, incuriositi da come ce ne raccontava, facevamo domande su domande. Ne parlava con la luce negli occhi, come se per lui fosse davvero una seconda casa. Sembrava che questo luogo avesse cambiato qualcosa nel profondo della sua anima.

Stabilimmo un’ora a settimana durante la quale parlavamo delle nostre esperienze più belle, e ogni volta che veniva il turno di Mr. K non vedevamo l’ora di sentire cosa avesse in tasca quel giorno.

“Il periodo in cui insegnai inglese nelle scuole dell’Uganda fu il più bello della mia vita” addentava la sua mela, spesso verde e acida.

“Di certo non potevo insegnare lo Swahili” ridacchiava e noi tutti assieme a lui.

Poi, dalla sua agenda estrasse una fotografia che lo ritraeva sorridente con un bambino ugandese sulle spalle. Lo sfondo mostrava una capanna senza né porte né finestre e la strada sterrata.

Presi la foto tra le mani e la analizzai. Sul retro lessi una dedica, probabilmente da parte di uno dei bambini. Diceva “grazie K, torna presto”. Sorrisi e non potei evitare di domandare da parte di chi fosse.

Mr. K fu entusiasta della mia curiosità e iniziò la sua storia.

“Quella foto la scattò Moses, uno dei miei studenti. Aveva appena preso in mano la sua prima macchinetta fotografica e, ovviamente, non sapeva come funzionasse. Ci vollero almeno dieci scatti prima di averne uno decente.”

“Il ragazzo sulle mie spalle invece si chiama Joan, suo fratello. Erano ragazzi fantastici. Impararono a leggere e a scrivere in meno di due mesi e si entusiasmavano per qualsiasi piccola cosa.” I suoi occhi sorridevano. Era fiero.

A quel punto nella classe c’era un silenzio tombale e nessuno sbatteva le palpebre per immaginare la scena.

“La nostra scuola era una baracca trasandata e rotta. Non avevamo né banchi né sedie. Gli unici strumenti disponibili erano una lavagna e un gessetto bianco, eppure le giornate in classe erano una festa. L’entusiasmo di quei bambini illuminava le giornate di noi insegnanti.”

“Vi farà riflettere ogni volta che penserete che la scuola sia noiosa” sogghignammo.

“Dopo scuola andavamo tutti in un’area verde per il pranzo. Devo ammettere di non essere un fan del cibo ugandese, ma facevo finta mi piacesse”.

L’idea di vivere quest’esperienza iniziava a farsi strada nella mia mente.

“Ogni tanto poi partivamo per qualche escursione nella savana. Vidi animali feroci come i leoni nel loro habitat naturale, scene indimenticabili”, allora la domanda sorse spontanea: “prof, ma non hanno paura di essere attaccati dai leoni?” “Fortunatamente questi non si avvicinavano ai villaggi ma rimanevano nella natura più selvaggia.”

La campanella suonò e mr. K uscì dall’aula. Io lo seguii nel corridoio e gli feci mille domande.
Lui capii la mia intenzione ma il suo viso non aveva un’espressione contenta come immaginavo. Fece un lungo sospiro, mi guardò e spense la mia volontà di partire.

“Quello che racconto in classe non è tutta la verità” aumentò il passo, lo raggiunsi, “cosa intende?”

“Intendo dire che a te ora sembra una bella realtà, ma purtroppo c’è molto altro dietro.”

“L’Uganda è devastata dalla guerra, non è rimasto più nulla. Non puoi neanche immaginare in che condizioni vivono le persone. I bambini vivono senza cibo né acqua e subiscono violenze di continuo. Non riesco ad avere notizie dei miei studenti da mesi ormai.”

Rimasi spiazzata, non immaginavo fosse così.
“Pensaci bene prima di partire, è pericoloso e potresti non rivedere le persone a cui ti affezionerai”.

A quel punto vedevo mr. K e la sua esperienza in modo diverso. Lui aveva avuto il coraggio di farsi avanti in una situazione così disagiata, era partito senza pensarci due volte. Molti avrebbero potuto pensare che la scelta migliore fosse passare un semestre in Europa, in Sud America, ma io sapevo che lui non avrebbe sentito ragioni. Era determinato. Voleva salvare quei bambini e donare loro un po’ di felicità.

Quel giorno tornai a casa, accesi il mio computer e iniziai le mie ricerche. Le associazioni mi sembravano tutte molto valide, ma non mi iscrissi da nessuna parte. La frase “potresti non rivedere le persone a cui ti affezionerai” rimbombava rumorosa nei miei pensieri.

Anche i miei genitori non sembravano d’accordo con questa scelta. Abbandonai l’idea e continuai normalmente il mio anno scolastico.

Non feci più domande, non avevo intenzione di ricevere altra disapprovazione da parte delle persone. Purtroppo il mio cuore era ormai indirizzato verso quella strada. Volevo avere lo stesso coraggio che distinse il mio professore.

Il pensiero della povera gente e delle condizioni in cui viveva mi spingeva sempre più a partire. Ormai ero determinata, dovevo solo superare la paura.

Quell’estate, dopo il diploma, decisi di partire e di vivere quell’esperienza ugualmente. Infondo era quello che volevo fare fin dall’inizio. Mi aggregai ad un’associazione di volontari e iniziai la mia avventura.

Convinsi mr. K a partire assieme a noi e ritornammo nello stesso villaggio protagonista dei suoi racconti.

I suoi alunni erano al settimo cielo. Purtroppo alcuni non ce la fecero, tra cui Moses. Juan invece andò a scuola nella città vicina e studiava per diventare insegnante.

Mi sentivo finalmente coraggiosa. Grazie a noi quei bambini stavano vivendo un’infanzia degna di essere chiamata tale.

Avevamo donato una speranza a persone che non avevano nulla, nemmeno una fetta di pane al giorno.

Era questo l’importante. L’importante era aver cambiato qualcosa nel mondo, anche se in una piccola realtà come quella del villaggio.

Eravamo felici così, ed eravamo stati coraggiosi.

Giorgia Risoldi

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